Quando osservo i tanti precari che affollano il mondo della scuola, partecipano a mille concorsi e corsi di aggiornamento, in attesa di ottenere iltantosospirato ruolo, non posso fare a meno di ripensare al periodo del mio precariato.
Dopo la laurea iniziai il calvario delle supplenze, nelle scuole della provincia: poche in verità, perché allora non si badava molto al rispetto delle graduatorie.
Contavano le conoscenze e io non ne avevo.
La mia speranza era il concorso a cattedra. Mancava da anni e arrivò soltanto nel marzo del 1973: 25000 cattedre per tutte le discipline sul territorio nazionale.
Ci sarebbe stato un posticino per me? Non fu così semplice, né immediato.
Gli scritti si tennero nel 1975, a Napoli, nelle antiche e severe aule del Liceo Vittorio Emanuele, per una classe di concorso
E per l’altra nel liceo Sannazaro
Gli orali si tennero a Roma, nelle aule dell’istituto magistrale Caetani, nel 1978.
Fui immessa in ruolo nel settembre del 1979.
Ebbi finalmente la mia cattedra di Italiano e Storia nell’istituto tecnico commerciale Filangieri di Frattamaggiore.
Fu una grande gioia per tutti noi, anche per mio padre, che, pur nella sua malattia, comprese tutto e una mattina, ancora svestito, si avviò verso la porta d’ingresso gridando:”Devo accompagnare Caterina a scuola. Deve prendere servizio e non può fare tardi.”
Mi ha sempre accompagnato nel corso della vita, forse anche adesso.
Nel frattempo che cosa avevo fatto? La mia vita era andata avanti: il matrimonio, due figli, le supplenze, un corso abilitante, corsi di aggiornamento per raggranellare punti in graduatoria.
Proprio a tal fine, qualcuno mi parlò del corso di Assistente sociale presso un Ente privato: tre anni, bastava pagare, gli esami erano tali solo sulla carta.
Per curiosità mi recai a Caserta dove aveva sede l’istituto. In un appartamento, una folla di aspiranti Assistenti sociali (il titolo della ministra Fedeli, per intenderci). Si svolgevano esami, fotocopie a tutto spiano, caos.
Mi vergognai e me ne andai.
So che ora le cose sono cambiate ed è stata istituita la laurea triennale presso l’università, ma allora era così.
La mia vita era piena, interessante (avevo anche avuto un’esperienza politica ed ero stata eletta consigliere comunale), ma questa è un’altra storia.
Tutto ciò non mi bastava.
Mi sentivo dimezzata, volevo il mio lavoro con tutte le forze.
Se mi si fosse offerta l’opportunità, avrei dimostrato il mio valore, ne ero convinta.
Intanto studiavo, quanto studiavo! Quasi sempre di notte, per non sottrarre tempo alla famiglia. Pedagogia, Didattica, Storia, Letteratura, Latino…
Scrivevo tesine su vari argomenti, tenevo lezioni private.
Nonostante il mio impegno, intorno a me tutto contribuiva a mortificarmi.
C’era in qualche scuola l’abitudine che un bidello portasse il caffè ai docenti in sala professori: io ero sistematicamente saltata, ero un’estranea. Trasparente.
Un preside, ben noto per la sua gestione clientelare, si presentava nella mia classe per una severa ispezione a sorpresa.
Non mi risulta che l’abbia mai fatto con i suoi protetti.
Mi capitò, mentre mi accingevo ad entrare in classe, di essere scambiata per un’alunna e quasi ricevere uno schiaffo sulla nuca da un collega, che non mi conosceva. Pensò che mi stessi attardando colpevolmente sulla soglia dell’aula e contribuissi a dirigere il chiasso dei compagni.
“Entra in classe! Che stai facendo fuori?” Per fortuna parlai:”Ragazzi, silenzio! “ Più che le parole, fu il tono professorale della voce a bloccare la mano che stava per piombare sul mio capo, mentre tutta la classe scoppiava a ridere e il collega:”Picceré, devi crescere!”
Un’altra volta fui costretta a dividere due camorristi in erba (lo divennero davvero): se le stavano dando di santa ragione, uno fu colpito al naso ed il suo sangue macchiò il mio maglione bianco.
I ragazzi, quando c’era la supplente, si ritenevano in vacanza e, nonostante cercassi di adottare ogni possibile strategia per suscitare il loro interesse, non c’era verso di frenare qualche capobranco riottoso.
Ripensavo spesso, prima di entrare in classe, al racconto di Giovanni Mosca, che, giovane maestro, ottenne il rispetto della classe ammazzando con la fionda un moscone che volava in classe.
Ma io non avevo una fionda e, se pure l’avessi avuta, non avrei saputo usarla.
Finalmente il primo settembre del 1979 il mio precariato finì e da allora ad ogni supplente, che capitava nella mia scuola, ho sempre offerto il caffè, con un sorriso di benvenuto.
In fondo, come tutti noi nella vita, non ho mai smesso di essere precaria.