Pietro Dubolino* per “la Verità”
Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione
La dottoressa Alessandra Vella, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Agrigento e autrice dell’ ordinanza con la quale è stata respinta la richiesta della locale Procura volte ad ottenere la convalida dell’ arresto della «capitana» della Sea watch 3, dev’ essere indubbiamente dotata di una robusta conoscenza di cose marinaresche.
Ha infatti magistralmente applicato, nella motivazione del suo provvedimento, un noto stratagemma difensivo, usato nelle battaglie navali del passato e costituito dall’ emissione, da parte della nave che cerchi di sottrarsi ad un impari confronto con unità avversarie, di una densa cortina fumogena che valga a sottrarla alla vista dei nemici e a consentirle la fuga.
Nulla più che una cortina fumogena si rivela, infatti, il sovrabbondante richiamo, sul quale in gran parte si basa l’ ordinanza in questione, ad una serie di norme, tanto interne quanto derivanti da convenzioni internazionali, che, in estrema sintesi, impongono ad ogni comandante di nave il dovere di prestare soccorso a quanti corrano pericolo di naufragio e di condurli nel più vicino «porto sicuro».
Secondo il gip di Agrigento la condotta di resistenza e violenza culminata nell’urto volontariamente provocato dalla «capitana» fra la nave al suo comando e la motovedetta della Guardia di finanza che cercava di impedirle l’ approdo nel porto di Lampedusa, sarebbe stata priva di rilievo penale perché giustificata, ai sensi dell’ articolo 51 del codice penale, proprio dall’ intento di adempiere al suddetto dovere.
Non è qui il caso di addentrarsi in disquisizioni circa quella che dovrebbe essere la corretta nozione di «porto sicuro» e circa la legittimità o meno della pretesa della «capitana» di volerlo identificare proprio nel porto di Lampedusa, ad esclusione degli altri che pure sarebbero stati più vicini.
A confutazione, infatti, della suddetta ricostruzione giuridica (e senza voler in alcun modo suggerire o anticipare le linee dell’ eventuale impugnazione che la Procura di Agrigento dovesse decidere di proporre avverso il provvedimento del gip), appare sufficiente osservare che:
1 Il dovere di salvataggio e conduzione dei naufraghi nel porto ritenuto «più sicuro» non implica anche quello di entrare a forza nel porto medesimo, ignorando i divieti posti dalle legittime autorità, quando il pericolo per la vita e la salute dei naufraghi sia comunque venuto meno; condizione, questa, che implicitamente trova conferma proprio nell’ ordinanza del gip, non facendosi in essa menzione alcuna del preteso «stato di necessità», originariamente invocato proprio dalla «capitana» a sua giustificazione e determinato, a suo dire, proprio dal progressivo, grave deteriorarsi delle condizioni di salute dei naufraghi a causa del protrarsi dell’ attesa dell’ autorizzazione allo sbarco.
2 Del tutto privo di rilievo appare il richiamo, contenuto nell’ ordinanza del gip, all’ articolo 18 della Convenzione di Montego Bay sul «diritto del mare», nella parte in cui stabilisce la legittimità della «fermata» e dell’«ancoraggio» di una nave nel mare territoriale di un altro Stato quando essi siano «finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo»; ciò in quanto, in primo luogo, la «fermata» e l’«ancoraggio» di una nave in mare sono, all’ evidenza, cose ben diverse dall’ ingresso della stessa in porto; in secondo luogo, non esisteva, nel caso, alcuna necessità di «soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo».
3 Parimenti fuori luogo appare il richiamo, pure contenuto nell’ ordinanza, all’ articolo 10 ter del Testo unico sull’ immigrazione, nella parte in cui stabilisce che lo straniero «giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi», di cui è prevista l’ istituzione in base a talune norme successivamente indicate; adempimento, questo che, secondo quanto si afferma testualmente nella stessa ordinanza, fa carico soltanto «alle autorità statali», per cui non si vede a quale titolo potesse sentirne investita la comandante della Sea Watch.
A quella che dovrebbe a questo punto apparire l’ assoluta inconsistenza delle argomentazioni poste a base della decisione del gip fa poi riscontro la sostanziale ammissione, da parte del medesimo gip (sia pure con espressioni alquanto involute e contorte), della volontarietà della condotta di violenza e resistenza nei confronti della motovedetta della Guardia di finanza per la quale la «capitana» era stata tratta in arresto. Si legge, infatti, nell’ ordinanza in questione, che l’ avere ella «posto in essere una manovra pericolosa nei confronti dei pubblici ufficiali a bordo della motovedetta della Guardia di finanza, senz’ altro costituente il portato di una scelta volontaria seppure calcolata, permette di ritenere sussistente il coefficiente soggettivo necessario ai fini della configurabilità concettuale del reato in discorso».
Una parola va poi detta, da ultimo, anche con riguardo al fatto che il gip ha ammesso soltanto l’ astratta configurabilità del generico reato di resistenza a pubblico ufficiale e non di quello, assai più grave, di resistenza o violenza contro nave da guerra, previsto dall’ articolo 1100 del Codice della navigazione, sostenendo che non sarebbe da qualificare come «nave da guerra» la motovedetta della Guardia di Finanza.
Ho già ricordato, in un mio precedente articolo, che analogo convincimento, espresso da un noto parlamentare, ex ufficiale di marina, è risultato in netto contrasto con quanto a suo tempo affermato e mai più contraddetto dalla Cassazione, secondo cui dev’ essere invece considerata «nave da guerra», ai fini che qui interessano, anche «una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima» (Cassazione, sez. III, 30 giugno-22 settembre 1987 n° 9978).
L’ordinanza del gip ignora totalmente questa pronuncia ma si richiama ad una sentenza della Corte costituzionale (la n° 35 del 2000) dalla quale si desumerebbe che le motovedette della Guardia di Finanza sono da considerare «navi da guerra» soltanto quando «operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un’ autorità consolare».
Non si fa caso, però, nella medesima ordinanza, al fatto che nella stessa sentenza della Corte si afferma, subito dopo, che nei confronti delle motovedette della Guardia di Finanza «sono applicabili gli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione»; e ciò, con ogni evidenza, indipendentemente dal fatto che esse operino fuori delle acque territoriali, dal momento che è sempre la Corte ad aggiungere poi che i detti articoli sono richiamati anche dagli articoli 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n° 1409, recante «norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi»; vigilanza, quella anzidetta, che si effettua, normalmente, proprio nelle acque territoriali.
Bruno Tinti, ex magistrato, per ”Italia Oggi”
L’ ordinanza del Gip di Agrigento che non ha convalidato l’ arresto del comandante la Sea Watch è giuridicamente errata.
In primo luogo, per un fondamentale errore di diritto. Nel territorio dello Stato si applicano le leggi ordinarie dello Stato. Se il giudice ritiene che una di queste leggi, rilevante nel caso che deve risolvere, sia in contrasto con la Costituzione, deve sospendere il procedimento e sollevare eccezione di incostituzionalità.
Deve, non può. In altri termini, il giudice non può semplicemente disapplicare la legge dello Stato perché, a suo avviso, in contrasto con la Costituzione. O chiede alla Corte costituzionale di dichiararne l’ incostituzionalità o la applica. Chiunque è in grado di valutare cosa succederebbe se ogni giudice, novello Antigone, si ritenesse libero di disapplicare leggi che lui, e magari lui solo, ritiene in contrasto con la Costituzione. A tacer d’ altro, ci si chiede (e avrebbe dovuto chiederselo il Gip) a cosa servirebbe, a questo punto, la Corte Costituzionale.
Venendo alla Sea Watch, scrive il Gip: Va premesso che, in base all’ art.
10 della Costituzione, l’ ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Tra queste rientrano quelle poste dagli accordi internazionali in vigore in Italia, le quali assumono un carattere di sovraordinazione rispetto alla disciplina interna ai sensi dell’ art. 117 Cost.
Sorprende che, dopo aver correttamente esposto questo principio, il suddetto Gip abbia potuto scrivere, a pagina 11 dell’ ordinanza: Ritiene, peraltro, questo Giudice che, in forza della natura sovraordinata delle fonti convenzionali e normative sopra richiamate, nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di «porti chiusi» o il provvedimento (del 15 giugno 2019) del Ministro degli Interni di concerto con il Ministro della Difesa e delle Infrastrutture (ex. art 11, comma 1-ter T.u. Imm.) che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave Sea Watch 3, nel mare territoriale nazionale. Tra l’ altro dimenticando (opportunamente) che direttive ministeriali e provvedimento del Ministro degli Interni erano diretta conseguenza del T.u. Immigrazione, da lui stesso citato.
In altri termini il Gip ha riconosciuto l’ esistenza di una legge dello Stato che legittimava le disposizioni adottate dalle Autorità competente nel caso di specie; e ha ritenuto che esse dovevano essere considerate illegittime in quanto in contrasto con trattati internazionali che prevalgono sulla legge ordinaria. Errore marchiano, frutto di una visione del proprio ruolo autoreferenziale.
Conseguentemente, la scriminante di cui all’ art. 51 codice penale (l’ adempimento del dovere), che il Gip ha utilizzato per ritenere legittimo l’ operato del comandante della Sea Watch, è del tutto insussistente.
Il dovere discenderebbe da norme internazionali che però sono in contrasto con una legge dello Stato. Ma, solo ove quest’ ultima fosse dichiarata incostituzionale, potrebbe ritenersene obbligatoria l’ osservanza. Fino ad allora, violare la legge italiana non è un dovere ma un reato.
Le argomentazioni del Gip sono anche criticabili sul piano della corretta applicazione delle stesse norme internazionali che egli assume essere state violate. La Convenzione sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar), prevede, all’ articolo 19, che il passaggio di una nave nel mare territoriale si considera «inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme de! diritto internazionale».
Per non rimanere nel vago, la stessa Convenzione prevede poi che «il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, ii buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero».
È evidente che la norma internazionale richiamata dal Gip considera illegittimo il transito della Sea Watch nelle acque territoriali italiane: la nave era impegnata proprio nell’ attività appena richiamata.
Un ulteriore profilo di criticità dell’ ordinanza si ravvisa quando il Gip valuta la condotta tenuta dal comandante della Sea Watch che, avendo l’ obbligo di sbarcare in un porto sicuro i «salvati in mare», si è arrogato il diritto di sceglierlo discrezionalmente.
Così ha rifiutato di condurre i «salvati» a Tripoli, come comunicato dalle Autorità libiche nelle cui acque era avvenuto il «salvataggio» e che erano dunque competenti a indicare il porto in questione. E ha chiesto alle Autorità italiane un altro porto in sostituzione di quello messo a sua disposizione.
Ovviamente queste non erano competenti poiché la nave si trovava in acque libiche. Ma per il comandante della Sea Watch la cosa era irrilevante. Possibile che il Gip non sia reso conto che riconoscere al capitano di una nave l’ assoluta discrezionalità sull’ identificazione del porto dove condurre i «salvati» è privo di senso? Se analoghe richieste fossero state rivolte all’ Olanda o alla Germania, quale pensa il Gip sarebbe stata la risposta?
Ovviamente, «non siamo competenti, chiedi alla Libia». Perché l’ Italia avrebbe dovuto rispondere in maniera diversa?
Altro porto sicuro nelle vicinanze era Tunisi, ma nemmeno questo al Comandante andava bene perché, dice il Gip: Venivano, altresì, esclusi i porti di Malta, perché più distanti, e quelli tunisini, perché secondo la stessa valutazione del Comandante della nave, «in Tunisia non ci sono porti sicuri». Circostanza che riferiva risultarle «da informazioni di Amnesty International»; sapeva, inoltre «di un mercantile con a bordo rifugiati che stavano da 14 giorni davanti al Porto della Tunisia senza potere entrare».
Considerazione che lascia perplessi: Tunisi non è porto sicuro perché le Autorità tunisine non lasciano sbarcare; Lampedusa, dove le Autorità non lasciano sbarcare, invece sì? Una simile acquiescenza alle argomentazioni difensive è davvero singolare.
Sempre con riferimento a Tunisi, il Gip sostiene che non poteva essere considerato porto sicuro perché: «Le persone tratte in salvo devono essere portate dove la sicurezza della vita dei naufraghi non è più in pericolo; le necessita primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono assicurate; può essere organizzato il trasferimento dei naufraghi verso una destinazione finale».
Non si capisce però in base a quali elementi (diversi dalle apodittiche affermazioni del Gip e dell’ arrestato) la Tunisia dovesse essere considerata non in grado di adempiere a tutto quanto sopra. Vero, non esisteva una normativa che prevedeva il diritto di asilo. Ma al comandante della Sea Watch questo non doveva interessare: i «salvati» vanno sbarcati, curati e avviati a destinazione; ci mancherebbe ancora che si debba anche valutare quale ordinamento giuridico sia per loro più favorevole.
Tutto ciò senza considerare l’ assoluta infondatezza della tesi di fondo: trattasi di salvataggio in mare. Infondatezza che ho cercato di descrivere nell’ articolo pubblicato su questo giornale il 2 luglio. D’ altra parte, lo stesso Gip dà atto delle dichiarazioni del comandane della Sea Watch: «Era un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto, non avevano esperienza nautica, né avevano un equipaggio».
C’ è qualcuno che possa davvero credere che i 50 migranti avessero intrapreso la traversata con un mezzo in quelle condizioni? Non è del tutto evidente che si è trattato, in questo come nella maggior arte degli altri casi, di un appuntamento programmato tra una ong e gli organizzatori del traffico? I migranti sono imbarcati, trainati a poca distanza dalla costa (niente benzina), la ong viene avvisata, l’ aereo (quello utilizzato in questo caso si chiama Colibrì) li avvista, fornisce le coordinate alla nave-taxi e il gioco è fatto. Davvero il Gip di tutto questo non ha sentore, non sospetta che il preteso «salvataggio» è in realtà una complicità nella migrazione clandestina?
Non sarà che gli errori giuridici finora evidenziati sono figli di una visione degli eventi quantomeno improvvida e non ideologicamente orientata? Io credo di sì. Soprattutto per l’ incauta scivolata che si legge a pagina 11 dell’ ordinanza: «Deve osservarsi, sulla scorta delle dichiarazioni rese dall’ indagata (a tenore delle quali ella avrebbe operato un cauto avvicinamento alla banchina portuale) e da quanto emergente dalla visione del video in atti, che il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella sua portata offensiva, rispetto alla prospettazione accusatoria fondata sulle rilevazioni della p.g.»
Bazzecole, dunque. Va bene arrestare lo scioperante che dà una spinta al carabiniere nel corso di una manifestazione di lavoratori e si giudica episodio modesto quello di una nave da oltre mille tonnellate che schiaccia una motovedetta di 17? Ecco, questa considerazione non era necessaria giuridicamente; ma costituisce una buona chiave di lettura del provvedimento nel suo complesso.